Marketing Modern Management
Sei sospeso a 50 metri dal suolo V2
BRUNELLESCHI FILIPPO LAPI:
IL TOP MANAGER DI SANTA MARIA DEL FIORE
Sei sospeso a 50 metri dal suolo, immerso in un sistema di cime, carrucole pesi e contrappesi mossi da...due buoi che girando in senso orario od antiorario fanno salire e scendere il materiale necessario al tuo lavoro: mattoni, calcestruzzo, fiaschi di vino rigorosamente tagliati per due terzi con acqua perché con la sicurezza sul lavoro non si scherza.
Tu e gli 85 compagni con i quali stai condividendo la vita da ormai una buona decade, alternando i turni per tollerare il sole cocente d’estate ed il gelo pungente dell’inverno non potendo godere della copertura di un “tetto” che state contribuendo a costruire, non siete coinvolti nella mera edificazione di un palazzo, di una diga, di un ospedale o di qualsivoglia opera funzionale, ma sei, siete, tutti compartecipi nella realizzazione di un simbolo che collegherà un territorio, il tuo, il vostro territorio, con un orizzonte temporale e con una apertura geografica che non vi potrete mai immaginare.
Non potrai mai immaginare a cosa porteranno i tuoi passi faticosi e precari mossi su traballanti tavole di legno sospese nell’aria. Mai nella tua Firenze del 1400 potresti immaginare che i mattoni che disponi a “spina di pesce”, secondo le precise istruzione dell’“Inventore”, il Brunelleschi, finiranno sulle pagine Face Book di tutto il mondo.
Ed è proprio per questo che ci sono finite. Perché quello che è veramente “grande”, innovativo, sfidante non può essere razionalizzato a priori, non può essere compresso e sezionato in una programmazione, in una articolazione numerica non supportata da una narrazione progettuale che non può, per definizione, trovare paragoni esterni. Non ci sono “benchmark” ai quali aggrapparsi.
L’innovazione vera non può essere imbrigliata in schemi logici che hanno il solo scopo di essere “leggibili” ed approvati dall’alto, da autorità interessate a certificare la loro abilità non solo di gestire e razionalizzare il rischio ma di eliminarlo totalmente. (“Seeing like a state”, James C. Scott”)
Ogni sistema che propone di avere un senso sempre e comunque perfettamente compiuto è destinato ad inceppare in cortocircuiti continui se non altro dovuti alla mancanza, necessaria all’uomo tanto quanto l’ossigeno, di poter sperare di vedere, sperimentare e vivere la sorpresa, di imbattersi in quello che nessuno aveva saputo prevedere, progettare, definire per poi plasmarlo, risolverlo con il proprio ingegno. (Rory Sutherland, “Il problema del marxismo è un eccesso senso”).
Neoliberista: Un Elemento Umano
La costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore in Firenze, “condotta” da Filippo Brunelleschi Lapi, oggi meticolosamente narrata con una infinità di dati tecnici e di aneddoti nella ricostruzione digitale degli “Anni della Cupola” di Margaret Haines, ci offre una visione, un affresco, un “insight”, sulla strutturazione del management necessario per superare la sfida più dura per l’essere umano: quella dell’ignoto. (Margaret Haines, Myth And Management In The Construction Of Brunelleschi’s Cupola, estratto da: i Tatti Studies Essays In The Renaissance).
Sfida dalla quale, oggi, sembriamo voler rifuggire a tutti i costi, rifugiandoci in modelli che la storia, recente e fresca, ci ha dimostrato essere invalidi, prefetti solo nella loro astrazione teorica ma sempre “perforabili” da un elemento umano che, in quanto tale, non è catturabile nemmeno dal più sofisticato algoritmo che contrariamente a quello che pensavano i Nobel laureate fondatori di LTCM, (LCTM, When genious failed), non poteva prevedere, non poteva ammettere che i trader, gli umani, agissero, anche, sulla base di una memoria personale.
Un “difetto”, questo, incompatibile con una visione dei mercati intesi quale sistema iperbarico, asettico, privo di qualsiasi pulviscolo di emozionale illogicità dove ad ogni apertura delle negoziazioni il gioco semplicemente “ricomincia” senza che del passato vi sia traccia.
Ma l’uomo, invece, ricorda, magari anche inconsciamente e comunque non offre mai una superficie liscia sulla quale le cose, gli eventi, i titoli azionari, possano passare senza trascinare con sé impressioni, emozioni che coniugate e ripetute per un numero esponenziale di individui si dimostreranno più forti dell’algoritmo da Nobel.
Eppure, la voglia di rifuggire dall’imprevedibile, dall’incerto, non solo non cessa a fronte dei continui “system failures” ma anzi, aumenta di intensità elaborando organizzazioni di sistemi valoriali che diventano implacabili prescrizioni normative -hypernorms- che intessono non solo il discorso economico ma anche quello sociale nella sua interezza.
L’elaborazione neoliberista del mercato perfettamente efficiente, la fictio non solo economica ma “antropologica” dell’uomo calcolatore e capace di determinare, sempre e comunque, il perfetto trade-off, lo scambio economicamente più efficiente, idoneo a massimizzare un valore che potrà essere agilmente “convertito” in una qualche “traded and floating currency”, magica chiave di accesso ad un “world of goods” infinito e continuo nel flusso della sua offerta (The world of goods, Mary Dougls), rappresenta uno dei picchi massimi dell’astrazione della realtà, della visione calata dall’alto. È la trasposizione economica della Parigi di Le Corbusier.
Una plastica e convincente rappresentazione di quell’entità umana calcolatrice e razionale è ben espressa da quel caso commerciale che vede una “utility inglese”, un provider di elettricità, offrire un premio di 1000 sterline a fronte della partecipazione ad un sondaggio che ha ricevuto più di mille adesioni e che, contemporaneamente, ha messo in palio un “pinguino di plastica” a fronte della partecipazione ad altro sondaggio che ha visto il triplo delle adesioni determinando, tra l’altro, un animato conflitto di interessi tra le due categorie di volontari tant’è che un soggetto ricettore del premio monetario ha preteso di ricevere, invece, il pinguino di plastica dal valore corrente di 15 sterline. (Rory Sutherland, Alchemy).
Legal, Fairness, and Feasibility opinion
Come dubitare quindi della base logica che sorregge tutta l’impalcatura della finanza moderna, quel sistema solare di umana elaborazione che ruota attorno non ad uno ma a ben due astri solari: l’assoluta libertà, intesa come capacità di piena ed infallibile autodeterminazione dell’individuo, ed il suo compendio teoretico, la “shareholder theory”, criterio informatore ultimo che tutto razionalizza che tutto copre e vede, anche quello che a noi, umani, sfugge. La creazione ha superato il creatore.
E’ su questi assi cartesiani che si dipana il nostro vivere, perfetto e razionale, preventivabile e gestibile in tutti i suoi possibili cortocircuiti mediante elaborazioni matematiche, indici e sistemi di allerta che ci aiuteranno non solo a ridurre il rischio, a prezzarlo ma, addirittura, a trasformalo in elemento di efficienza, in detettore di pericolo che i più accorti, i più razionali degli altri, non sapranno non cogliere per massimizzare il loro personale trade-off, il loro guadagno che poi, magicamente si tramuterà in una ancora più efficace ed efficiente funzionamento del sistema nel suo complesso.
Un sistema capace di autoregolamentarsi espellendo il superfluo, l’inefficiente, gli “zombie”, (How to avoid a corporate zombie apocalypse, FT, February 5 2020) per lasciare spazio a successive onde di innovazione, a patto che l’onda possa essere sempre ben controllata, leggibile dall’alto, sul presupposto che abbia senso a priori sulla basi di “data”, di benchmark, di prassi operative vagliate e certificate, santificate da legal, fairness and feasibility opinion che potranno farci dormire sogni tranquilli.
Homo Faber e Marketing Modern Management
Pienamente anestetizzati dal rischio non sentiremo nemmeno più il bisogno di frenare e reprimere la naturale voglia di esprimere quella umana singolarità che può trovare concreta attuazione solo nell’azione, nella partecipazione al discorso non come semplice soggetti apaticamente aderenti ad una narrazione prefabbricata, declassati al ruolo di esecutori di un determinato “task”, ma come, “homo faber”, individui insopprimibili in una unicità che non può non avere concreta e terrena espressione se non inserita in una dinamica aziendale capace di far vivere anche principi di solidarietà e spontaneità. (Escaping the Fantasy Land of Freedom in Organizations: The Contribution of Hannah Arendt Yuliya Shymko1 · Sandrine Frémeaux 1,2, Journal of Business Ethics, 2022).
Come dubitare delle efficienze di autoregolamentazione raggiunte dal sistema quando tutti i meccanismi di monitoraggio finanziario elaborati dalle massime autorità sovranazionali come la BSI (Bank for International Settlement) e da quel gremio che prende il nome di Basilea I, II, III, IV... e poi via verso un sequel da Blockbuster hollywoodiano, certificavano la piena solvibilità di Credit Suisse che, al fallimento, presentava, rispettivamente, un LCR, Long Term Resiliance Rate, un HQLA, High Qiality Liquid Asset Rate e, soprattutto, un LCR, Liquidity Coverage Ratio, pari al 150%? (Credit Suisse Group takes decisive action to pre-emptively strengthen liquidity and announces public tender offers for debt securities, Credit Suisse, Ad hoc announcement pursuant to Art. 53 LR).
Come non fidarsi di un sistema così sofisticato che da un lato è capace di elaborare ed esprimere, in real time, sintesi di “data” complessi, imperscrutabili per i comuni “vires” e che, dall’altro, non è scevro di una profonda umiltà che lo tiene ben incollato all’economia reale e che lo porta ad individuare, con audace pragmatismo, il vero barometro del sentimento economico mondiale nei “latte & macchiato” ordinati presso uno degli outlet della caffetteria più conosciuta al mondo: Starbucks. (Corporate America is over-caffeinated, Let us hope our dependence on the fragile US consumer holds up, FT, September 8, 2019).
Latte Makers vs Latte Takers
In un sistema economico mondiale che ormai si divide nei due grandi ed equamente nobili emisferi dei “latte makers” e dei “latte takers”, il consumatore di Starbuck è la banderuola che meglio ci permette di capire dove si sta posizionando il mercato, quello reale (Fed Officials Warn Consumer Is Alone in Carrying U.S. Economy, Bloomberg), tanto è vero che un moderno alter ego del Brunelleschi, il nuovo Inventore, Howard Schultz, è chiamato direttamente e personalmente dal vertice del potere politico (Howard Schultz Wants to Change the Country With Starbucks | Time Magazine), relegato anch’esso a contributore di performance, a “genitor”, aiutante alle pulizie delle highways dei mercati che devono restare sempre pulite per permettere il continuo flusso economico, incessante nella sua infaticabile efficienza che oggi può essere comodamente misurata anche, o forse solo, sulla base del numero di prodotti a base di caffeina oppure sul loro opposto, sulla conta di quelli privi della sostanza eccitante, in una prefetta alternanza tra caff e decaff materializzata in una serie infinita di combinazioni di gusti ed aromi nei quali si potrà esprimere “l’autenticità” del singolo. (Consumer Society, J. Boudrillard).
La Cupola di Brunelleschi, la caduta degli dèi di LCTM, gli algoritmi fallati che hanno mandato il tilt il sistema finanziario mondiale nel 2008, la patente falsa della più longeva banca svizzera, spazzata via in due settimane, l’assurgere di una caffetteria planetaria a “bellweather” dell’economia mondiale ed il radicamento di una nuova hypernorm, quella del neoliberismo e della piena emancipazione dell’uomo della sua irrazionalità: quale il “filo rosso” che le collega? Dove la “spina di pesce” che regge l’impalcatura di una narrativa che salta i secoli nello spazio di poche righe?
Una parola: Governance
La governance del Brunelleschi si è dimostrata essere il perfetto complemento “intangibile”, di quell’hard asset distintivo costituito dai mattoni disposti a spina di pesce. Tangible & intangible proprietary and distinctive assets ottimizzati, “amalgamati” e implementati in strategia unica.
L’essenza di quella che una grande società di consulenza strategica avrebbe definito come VRIO: valuable, rare, inimitable, organized. Brunelleschi aveva briciato sul tempo, circa 5 secoli, anche Mckinsey.
L’organizzazione e l’esecuzione del lavoro agli albori del rinascimento, tanto nelle botteghe dei grandi artisti che nei cantieri delle grandi opere non aveva nulla di romantico ed epico. La suddivisione gerarchica era ferrea, le categorie di lavoratori minuziosamente definite e regolate in una perfetta simmetria tra titolo, funzione e remunerazione. Sicuramente la
realtà era molto più vicina ad una moderna Foxcom che a qualsiasi bottega artigiana dei giorni nostri.
Eppure, Brunelleschi intuì perfettamente l’essenza del funzionamento efficiente di un sistema complesso come quello che si trovava a gestire, riconoscendo l’assoluta interdipendenza di tutti i fattori che, insieme, andavano a creare una unità ulteriore, distinta, diversa dalla loro semplice somma algebrica e la cui proprietà non poteva essere arrogata da parte di nessuno non essendovi la superiorità ontologica di una funzione, di un apporto sull’altro in quanto, tutti e solo tutti, nel loro congiunto e dinamico fluire potevano arrivare o costruire quel nuovo agglomerato che avrebbe permesso la generazione di nuovo vero valore inteso come sintesi qualitativa, trasformativa degli output fisici delle singole parti.
Qualche milione di mattoni, carrucole, mastri muratori e via discorrendo non possono essere semplici voci di bilancio, asset da analizzare freddamente per poterne valutare opportunità di scomposizione e riassemblaggio sulla base di una mera efficienza numerica elaborata a tavolino o “computerino”.
Un mastro ligure costa meno di un mastro toscano e quindi lo posso sostituire?
Ai tempi dell’Opera non erano disponibili quelle “ICT” Information Communication Technologies che hanno permesso la costruzione e la gestione, fino a poco fa, delle moderne catene del valore integrate che oggi vengono rapidamente sostituite da un “reshoring” (Rana Forhoorar, Homecoming, the path to prosperity in a post global world) che oltre a poggiarsi sul riconoscimento di precarietà gestionali causate dalla pandemia prende, finalmente, coscienza del fatto che quella visione dall’alto, quel “seeing like a state” che ha sdoganato uno dei corollari applicativi più “tragici” dell’efficienza teorica neo liberale, ovvero l’irrilevanza assoluta del luogo di produzione è non solo insostenibile ma distruttivo. (After Neoliberalism All Economics Is Local, Rana Forohar, Foreign Affais)
In nome dell’efficienza numerica, quantistica, algebrica, si è voluto obliterare quel collegamento tra uomo e territorio, quella “embededenness” (Il segreto italiano, Treccani) che crea un presupposto fondamentale tanto per la sostenibilità e la oggi tanto abusata, “resilienza” finanziaria non solo dell’impresa ma di tutto il territorio su cui la medesima insiste (A return to 1970s stagflation is only a broken supply chain away, FT), dando origine a quella “social capability” che avrebbe fatto di Firenze non solo la città della Cupola ma poi, per secoli a venire, un centro di aggregazione culturale ed innovazione sociale.
Material vs Immaterial
Questi collegamenti tra materiale ed immateriale, tra uomo e territorio emergono benissimo dagli studi relativi all’Opera ed oggi accessibili grazie alla ricostruzione digitale della Haines:
“....Queste celebrazioni di cantiere danno uno sguardo sul l'esprit de corps che caratterizzava le maestranze della cupola di Brunelleschi. Anche la composizione compatta del gruppo e la relativa stabilità e fiducia che i lavoranti godevano sul posto del lavoro possono avere contribuito al buon risultato in termini di sicurezza, nonostante le sfide terrificanti del compito. Per ogni muratore, scalpellino e manovale l'individuo che gli faticava accanto, o che pendeva dalla corda che lui manovrava, era un compagno di lungo corso. La cupola slow aveva senso in un contesto di finanziamenti pubblici contenuti ma costanti, di sperimentazione di metodi costruttivi assolutamente nuovi e audaci, di muratura autoportante che necessitava di tempo per consolidarsi in ogni fase, di forza lavoro per la maggior parte locale e coesa, di committenza che si sentiva interprete della volontà cittadina e responsabile della retta gestione dell'amministrazione e del cantiere di fronte al popolo fiorentino e a Dio”.
(E l’informe, infine, si fa forma... Studi intorno a Santa Maria del Fiore in ricordo di Patrizio Osticresi a cura di Lorenzo fabbri Annamaria Giusti)
La migliore versione “contabile” dello “spirito” della Cupola è tracciata da da ù in “The company as an entitity”, ove si individua il connotato essenziale e distintivo dell’impresa in quello specifico “intento” attorno al quale tutti i fattori tangibili ed intangibili ruotano e si organizzano:
Le Api un esempio di marketing modern management
Un divenire costante, un progresso incessante mosso da un “intento” univoco, condiviso e partecipato che rende la somma algebrica degli asset materiali ed immateriali non semplicemente dotati di un plusvalore organizzativo ma di una integrazione più profonda, intima quasi, tra umo e fattori di produzione così forte da eliminare il concetto di proprietà in forza del pieno riconoscimento della valenza trasformativa operata dalla comunità aziendale che non potrà mai essere assemblata e ricomposta come un gigante “lego”, smontata da una parte e ricostruita dall’altra se non a pena perdere quel lubrificante umano che permette agli ingranaggi di girare, tanto a quelli dei “buoi” di un cantiere del 1400 fiorentino che di una moderna tech company (Mark Zuckerberg Is Wrong About Meta. Why Luxury Should Listen, Daniel Langer, Jing Daily): questo è il plasma che scorre nelle arterie della organizzazione societaria.
Senza quel surplus dato da una partecipazione disinteressata, fatta senza calcolo di interessi economici o di “scalate” interne, con la piena assunzione del rischio di un fallimento pubblico che può trovare la sua rete di protezione solo in un una fiducia autentica e diffusa che permetterà di esprimere visioni e critiche non razionalizzabili a priori, rendendo così possibile il più efficace bilanciamento tra le risorse destinate all’investimento piuttosto che alla sperimentazione nella consapevolezza della imprescindibilità di entrambi, pena ritrovarsi nella pericolosissima condizione di essere ottimizzati per il passato, per quello che è già successo, prigionieri di una gabbia mentale dei “data” già superati, rassicurati del successo di ieri e refrattari nello scorgere tanto nuovi pericoli che nuove possibilità.
Se vi fosse dello scetticismo nonostante la prova di un successo architettonico che dura da 5 secoli possiamo risalire a “best practices” ancor più datate, con un track record operativo di circa 20 milioni di anni.
Questo il lasso di tempo durante il quale le “api” sono attive sul pianeta e lo sono grazie ad un fondamentale principio “informatore”, ad un intento condiviso che previene la codificazione di una uniformità totale del comportamento in base a logiche di pura metrica di ritorno finanziario di breve periodo: un conforto immediato per il presente, un siero letale per il futuro.
IBM forse se la sarebbe cavata meglio se tra i suoi manager avesse assunto un apicultore. (Big Blues: The Unmaking of IBM, rise and fall of IBM, offering a devastating study of corporate bureaucracy, lack of oversight, and decline).
Anche l’ecatombe economica e sociale di Big Blu non ha potuto contare sull’innata tensione riequilibrante del sistema nel suo complesso.
Ancora una volta il paradigma dell’Homo Economicus, attento al proprio interesse, non ha pienamente valutato la convenienza del trade-off con il conglomerato del tech: io ti dono una vita di performance, di adesione al modello, senza se e senza ma, e tu mi dai certezza del lavoro a vita.
Homo Economicus
Se i dipendenti di IBM, accortisi che un modello di business basato sul monopolio non avrebbe potuto reggere di fronte a ormai incontenibili spinte di innovazione, il desktop, e di una inarrestabile integrazione dei mercati del tech, se avessero iniziato ad andarsene forse, la “balena blu” avrebbe modificato il suo corso, forse il top management avrebbe letto il segnale invertendo le dinamiche da Top-Down A Bottom-Up.
Ma adeguarsi al sistema, essere conformi, performare il task specifico ritenendo così di essere esonerati dalla cosciente analisi di un orizzonte più ampio, trincerarsi nel “io ho fatto il mio” è, evidentemente, una propensione economica molto più forte che di quella che dovrebbe spingere alla massimizzazione della propria utilità economica all’interno di un sistema di scambi perfetto, fluido, frictionless.
Le api, invece, hanno saputo mantenere una inviolabile riserva di libertà per una piccola ma vitale percentuale dello sciame che, non obbligata a seguire i “giacimenti” di polline già individuati dagli “associates”, si possono avventurare su rotte sconosciute nella consapevolezza che la ricerca di una alternativa, che la necessità di aumentare la superficie della propria esposizione a positività casuali ed inaspettate è vitale per evitare atteggiamenti predatori sulle risorse presenti e che nel breve termine permetterebbero, sì, una massimizzazione del P/E ratio della APE SPA a tutto scapito, però, della rinuncia ad un “upside” potenziale che potrebbe essere ancor più vantaggioso.
Se le api, così ci dicono gli studiosi, avessero seguito il principio della massimizzazione finanziaria trimestrale si sarebbero già estinte da qualche milione di anni. Ad IBM ne sono bastati molto meno.
Se Brunelleschi non avesse permesso, incoraggiato e richiesto il dialogo dei suoi “collaboratori”, se non avesse posto in essere i presupposti per un “positive feed back loop” sulla base del quale aggiornare in tempo reale i dati dell’Opera prevendendo la formazione di “silos” (Gillian Tett, the Silo Effect: The Peril of Expertise and the Promise of Breaking Down Barriers ) che avrebbero reso molto concrete, possibilmente con cadute rovinose o con l’implodere delle arcate, le inefficienze intangibili, sottili, non contabilizzabili, delle immancabili “turf war” che si realizzano non appena il numero dei collaboratori supera la 5 unità oggi, forse, non potremmo ammirare una meraviglia che ispira il genere umano al di là del tempo al di là di ogni circoscrizione culturale e geografica.
Valutazione del “Consumatore”
Tanto a livello macro, di grandi sistemi integrati, che micro, di concreta operatività dell’impresa, della fabbrica del cantiere, pare potersi scorgere un “bug”, un “virus” capace di vivere ed adattarsi ad ambienti molto diversi tra loro per dimensione, tipologia operativa, mercato, ma tutti aventi in comune un fattore determinante, una “conditio per quam” senza la quale, appunto, il sistema non può progredire rimanendo “incagliato” su dinamiche interne costruite su un agglomerato di “data” sempre retrospettivi, che avanza solo per dinamiche incrementali (The Economist: Innovation beyond the comfort zone - White Paper ByÉquité | Dr. Daniel Langer) non solo non avendo il coraggio e/o l’interesse ad esplorare fuori dalle convenzioni, ad aumentare ogni millimetro della superficie di un possibile ma non pre-razionalizzabile successo ma anzi, stando ben attento a non scostarsi da binari già tracciati che non potranno mai decretare il fallimento personale di chi li percorre ma potranno, invece, segnare l’inizio di quel processo involutivo, ed ultimamente fallimentare, che sempre occorre quando il dialogo interno non è finalizzato a risolvere problemi ma solo a vincere uno scontro dialettico che, di default, taglia fuori ogni considerazione e valutazione del “consumatore”, ovvero dell’unico generatore di ricchezza per quell’agglomerato produttivo che si chiama impresa.
Una rivoluzione copernicana della governance societaria, o di qualsiasi sistema complesso, non potrà materializzarsi se non riconoscendo ed “accettando” il dato primario, ineludibile, non neutralizzabile, come visto, nemmeno con le più sofisticate formule alchemiche della moderna finanza (Marvin King, The End of Alchemy: Money, Banking and the Future of the Global Economy), ovvero l’incertezza ed il rischio, ormai “cronicamente radicale” e assolutamente permeante al punto da essere ben riassunto con un acronimo V.U.C.A., volatile, incerto, complesso, ambiguo, (Mckinsey, The 5 Trademarks of Agile Organizations) che ne sintetizza tutta la complessità.
Anche i prominenti vati del Sistema neoliberale non hanno mai pensato di potersi schermare dietro l’artifizio procedurale ed il simulacro degli indici e delle “weighted ratios” come elisir esoterici, ex voto per una certezza finanziaria al di là di ogni dubbio, di ogni incertezza.
Quale la possibile soluzione allora? Prendere atto della realtà per quella che è ed “abbracciarla”: just “Say yes to the mess” (Frank J. Barret) riconoscendo la condizione stabile dell’impresa oggi che, volente e nolente, “si trova sempre sull’orlo dell’ignoto, pronta a fare il salto nello stesso”.
Modern Management
Il parallelismo tra il jazz e l’azienda elaborato dal professore di management e jazzista professionista ha il vantaggio dell’autenticità, della coerenza del vissuto tanto sotto il profilo accademico che artistico.
Se, come diceva il padre fondatore del moderno management P. Drucker, la gestione di impresa è essenzialmente una arte liberale, liberale in quanto tratta con i fondamentali della scoperta e della conoscenza, ed arte in quanto richiede applicazione ed esercizio costante che aumenta di valore al crescere di conoscenze trasversali e diversificate, (P. Drucker, The practice of Management) è facile intuire quanto inefficiente debba essere una impostazione manageriale, quella dominante, che procede su una dinamica di input & output definiti a priori, elaborati ed analizzati solo sulla base di una valenza quantistica basata, a sua volta, su “assumption” create in laboratorio.
Il parallelo musicale di Scott è in perfetta assonanza con la visione di Drucker per il quale il management disciplina i rapporti di potere tra gli individui, definisce e regolamenta le strutture di valore e, soprattutto, le responsabilità degli individui all’interno del sistema aziendale.
Tanto nel jazz come nell’impresa la partecipazione non gerachicizzata, non sovra- strutturata alla narrativa della comunità, l’aggregazione informale, libera dalle classificazioni e dai ruoli, l’“hanging out in coffee shops”, è il presupposto per arrivare a costruire la “confraternita” che permette la generazione di una narrativa comune, condivisa, co-creata e, per questo, accessibile da tutti nel momento dell’incertezza, quando vi è il bisogno di far fronte all’imprevisto, al cortocircuito procedurale che non solo viene eliminato ma diventa fattore di innovazione immanente, bottom-up, diventa cultura di impresa intesa come coagulante comportamentale condiviso che permette di scegliere, immediatamente, con massima efficienza e “feeling del mercato” tra le alternative che la “crisi” ci pone davanti.
Questa è l’essenza della “partecipazione periferica” ove pezzi di brani, sequenze di note operative vengono scambiate, disassemblate e ricomposte da managers, line-workers, ingegneri tutti posti su di un piano di assoluta parità ove il primo criterio di valutazione è la loro capacità di rinunciare all’ego collegato alla definizione funzionale e burocratica dell’impresa così come fotografata dall’organigramma che da strumento di organizzazione interna si trasforma in mappa universale attraverso la quale si pretende di poter la realtà esterna.
Facile a Dirsi, Difficile a Farsi
È su questi binari che l’organizzazione societaria potrà compiere il passo verso una autentica diversificazione, verso un posizionamento così peculiare e distintivo da potersi qualificare come vero vantaggio competitivo di lungo termine, contributore netto a quella “rarità” che, oggi, sarà difficilmente raggiungibile attraverso un nuovo prodotto od un nuovo servizio.
E’ su quell’intangibile, su quel coordinamento interno, su quello sparito, su quell’intento unico di quella determinata impresa che si potrà realizzare la mutazione genetica che separa la semplice organizzazione di fattori di produzione proprio della corporate entity da un lato e, dall’altro, quella capacità di innovare anche sulle criticità propria solo della corporate persona, dotata di un proprio carattere, di una propria personalità distintiva, autentica che emerge in ogni punto di contatto con il consumatore, tanto fisico che digitale, andando a realizzare quella visione, quel miraggio tanto decantato e mai veramente compreso e tanto meno attualizzato che si chiama “branded experience” quella “whicked experience emerging from a unique combinatio of people, purpuse, place and product” (Re- Engennering Retail, Dough Steven).
Da Brunelleschi, a Drucker passando per il guru del moderno retail, D. Steven, sulle frequenze jazz di J. Scott, non si può non vedere un altro filo rosso, una chiara fila di mattoni disposti a spina di pesce che sono in grado non solo di tenere insieme ma, anzi, di rafforzare l’intera costruzione societaria man mano che questa si allarga, man mano che questa si ampia integrando nuove funzionalità e competenze che non si rovesceranno su sé stesse, precipitate dalla forza gravitazionale sprigionata da costrutti fittizi di inquadramento e preconfezionata interpretazione della realtà esterna ma che, invece, sapranno integrarsi alla perfezione in un percorso di riconoscimento di reciproca parità e dignità, in attuazione della massima valorizzazione del contributo del singolo inteso come soggetto libero di agire e non solo di performare. Facile a dirsi, difficile a farsi.
Le grandi analisi, le grandi ricognizioni fatte “dall’alto”, come questa, sono, spesso, incrociate con uno scettico e diffidente “.....e quindi?” Poter individuare una immediata applicabilità, soddisfare il desiderio di passare dalla parola all’azione, poter vedere un risvolto concreto e pratico a seguito dell’esposizione di un quadro complesso, denso di problematiche è naturale, comprensibile.
“ma sai....poi bisogna vendere...”
E quindi? Qual è il punto di contatto dove la realtà aziendale, la vita vera, incrocia l’analisi? Dove si crea il maggior valore aggiunto dato dalla fusione dei due elementi? Quello “teorico” e quello “concreto”, quello del lavoro “vero”?
La fusione, l’incrocio, la collisione avviene, si materializza, si contabilizza in quella voce del bilancio che comprime in un singolo lemma una serie complessa di attività propedeutiche che, per qualche oscura ragione, si disintegrano, scompaiono come non fossero mai esistite a fronte della parola: “SALES”. La vendita!
Entità numerica dalla potenza mitologica, unica bussola da seguire, the TRUE NORTH dell’impresa che getta nelle tenebre dell’irrilevanza tutte le voci che la precedono perché, va bene tutto, va bene la strategia, va bene la sostenibilità, va bene l’autenticità “ma sai....poi bisogna vendere...”
Ed ecco che, magicamente, l’emisfero interno, chiuso, sigillato, artificialmente temperato dell’impresa si frantuma, si dissolve, non appena messo a confronto con la dura realtà esterna, quella della prima basica transazione, lo scambio di una cosa o di un servizio per un controvalore monetario, da cui possono partire, e sono partire, tutte le proiezioni, tutte le evoluzioni derivate e sintetiche che in tutta la loro complessità, più o meno utile, non possono prescindere da questa banalissima fenomenologia economica di base.
E quindi? Quindi pensare di poter organizzare un ciclo industriale, poter pensare di creare un valore unico, distintivo, sorprendente ed emozionate, non preventivabile, capace di far toccare, vivere e respirare, nelle mani e nella mente del consumatore, la vitalità di un messaggio, di un significato in riferimento al quale il prodotto od il servizio sarà una bellissima, curatissima pregiatissima “proxy”, un mero supporto, senza avere prima realizzato un insieme di valori che possano essere condivisi e co-creati tra impresa e mercato in un dialogo comune che, paradossalmente, o no, si svolge innanzi tutto fuori dai canali classi di comunicazione, dai media deputati a spargere e disseminare non messaggi ma “grida manzoniane” che urlano “compra me”, è pura e semplice follia.
Si Riscopre l’Ehtos
E quindi? E quindi una organizzazione sociale che non è strutturata come un sistema vivente, come una “persona” in grado non solo di dimostrare ma anche di far vivere e sentire una propria “umanità” un interesse al dialogo che prescinda dall’interesse commerciale non riuscirà mai proprio nel suo intento ultimo, nella costruzione di quel numero, “value of goods sold” che razionalizza, giustifica e premia gli sforzi comuni.
Ed è, forse, proprio qui il paradosso di una moderna economia che si muove a pendolo tra esigenze non solo divergenti ma contrastanti come quella di essere inclusiva ma differenziata, di “lusso” ma accessibile, sostenibile e profittevole.
Ma l’archetipo del paradosso si trova proprio nella necessità, commerciale, dell’impresa di negare la sua stessa essenza di entità burocratica, di ente precostituito, organizzato, anaffettivo, eterodiretto ed aderente ad un criterio indicatore unico, quello della massimizzazione del valore economico dei fattori di produzione in base al quale, nelle elaborazioni strategiche in vitro, tutto è razionalizzabile, tutto pianificabile potendosi imporre, per magia, comportamenti al mercato esterno che convergeranno perfettamente e miracolosamente con le pianificazioni del nostro budget trimestrale.
L’impresa che non saprà captare “l’avanguardia del mercato”, che non saprà interpretare lo spartito jazz imposto da un consumatore imprevedibile ove la segmentazione del “tipo”, entità economica non solo fantastica ma fantasmagorica partorita da un mondo “The Big Con” (Marianna Mazzuccato, Rosie Collington, The Big Con), che non solo ha “infantilizzato” il settore pubblico britannico ma ha “sedato” quell’indomito spirito imprenditoriale italiano, imbrigliandolo in categorie e classificazioni, in vitro, tanto finte quanto comode, nitidamente rappresentabili in grafici colorati e fogli exell “dinamici” ove domanda ed offerta si muovono lineari e meccanicamente prevedibili in base al movimento idraulico di prezzo, da un lato, e, dall’altro preferenze di acquisto che sono date come “immanenti” innate, così forti ed ineludibili da parte di un consumatore che potrà essere attirato, come un magnete, dalle offerte dei vari metalli che con i quali gli operatori decideranno di entrare nell’arena economica. Big Con ha tracciato una linearità simmetrica tra tipologia di offerta e tipologia di consumatore da far impallidire le anime d’oro, argento e bronzo di platonica elaborazione, niente meno!
E quindi? E quindi l’impresa che al suo interno pensa ed agisce come una struttura burocratica, lenta, non agile, non “jazz”, sempre pronta a mediare gli input esterni in base a circostanze di comodo e per convenienze interne, non solo non capace di adattarsi alla realtà esterna ma desiderosa di imbrigliarla nei propri schemi, non potrà non commettere il peggior “crimine commerciale” che Remo Ruffini, gran “Genius” di Moncler identifica con la “noia”.
Il mercato è troppo sofisticato, veloce, il consumatore troppo intelligente, attento, esperto, per non filtrare la produzione, l’elaborazione “autentica”, originale, emozionante da quella lenta, meccanica, burocratica che, a prescindere dai budget disponibili, non potrà mai bucare, come ben dimostrato dai dati, lo schermo del mobile device del compratore finale. (Harvard Business Review, Branding in the Age of Social Media, by Douglas Holt).
La valenza, immediata e diretta, del “quindi” della ricognizione del nuovo mondo è perfettamente sintetizzata da uno dei massimi esponenti, tanto in termini strategici che di fatturato, di “sales”, la “roba” che conta insomma, dell’ethos del nuovo capitalismo.
E quindi? E quindi la standardizzazione la burocrazia interna non potranno che generare prodotti e comunicazioni noiose e, come dicono i numeri, la noia non vende!
Ed ecco, quindi, che tutto torna. Dalla Cupola di Brunelleschi al Genio di Moncler, con le dovute proporzioni, si riscopre l’ehtos, l’intento umano che ci collega all’altro nostro simile e che premette la realizzazione del primo presupposto economico che potrà far girare quel sistema economico globale che non solo pensava di poterne fare a meno ma che, invero, ha volontariamente voluto sopprimere in nome di una connotazione apatica dell’uomo, anaffettiva, da trite, tristissimo, calcolatore di plastica.
Per andare aventi dubbio, allora, forse guardare al passato, ad una inventiva, ad un coraggio che non avevano paura di esprimersi e che non avrebbero mai accettato di lasciarsi ingabbiare in costrutti logici solo sulla carta e sempre pronta ad una “trasgressione che piace alla gente comune», in oggetti che «infrangono le regole restando con un piede nel mercato”. Queste le parole di Alberto Alessi cui fanno immediato eco quelle di Aurelio Zanotta: “Dobbiamo presentare al pubblico una produzione con precise funzioni ma che abbia qualità innovative ed emotive”.